C’è un aspetto della pratica di mindfulness e della bioenergetica che suscita sempre stupore perché è controintuitivo. In entrambi i casi cerchiamo di arrivare alla tranquillità senza un’azione diretta al rilassamento ma attraversando invece quello che c’è: l’agitazione della mente, la tensione del corpo. In bioenergetica addirittura usiamo posizioni che aumentino la consapevolezza della tensione per poter arrivare a quello stato di rilassamento che chiamiamo “arrendersi al corpo”. Come mai partiamo da quello che c’è, come mai non facciamo qualcosa di più diretto contro la tensione? La risposta è comune: un’azione diretta contro la tensione – sia fisica che mentale – energizza le difese e noi vorremmo, invece, aprirle.
Eppure energizzare le difese è un errore che facciamo spesso. Per esempio insistendo quando otteniamo un rifiuto, facendo pressione per ottenere un risultato, cercando di modificare attivamente una situazione. Abbiamo paura che se non ci mettiamo sotto sforzo e sotto pressione potremmo diventare troppo passivi. In realtà non teniamo conto di una legge fisica semplice e adatta a diverse situazioni: se applichiamo energia a qualcosa non è detto che vada dove vogliamo noi. Noi possiamo applicare energia ma poi l’energia va dove vuole lei. Così, alla fine, dopo tanto sforzo, abbiamo anche un altro problema: gestire il senso di impotenza e frustrazione che abbiamo vissuto per non essere riusciti a cambiare. In alcuni casi, anzi, abbiamo addirittura peggiorato la situazione, come accade con i figli adolescenti che più gli proibisci qualcosa e più la trovano interessante. Ecco, le nostre difese sono come gli adolescenti: più lotti contro e più si rafforzano. Invece se ci avviciniamo con un atteggiamento di apertura e sincera curiosità – senza trucchi – si aprono.
C’è chi dice che se si energizza le difese prima o poi cedono: io ho visto molti danni creati da questa strada e poche vere soluzioni mentre di fronte a qualcuno che ti ascolta con interesse e apertura ho visto parecchie fioriture. Ecco perchè abbiamo bisogno di integrare la pratica individuale a quella interpersonale: perché a volte noi non sappiamo mostrare questa apertura a noi stessi mentre la sapremmo mostrare ad un altro. E l’altro ci testimonia che accettare è possibile. E in quella testimonianza rende più accessibile materiale emotivo che è nostro e che avevamo nascosto dietro le nostre difese.
La meditazione interpersonale svela in modo decisamente più diretto la sofferenza che si associa alla vita nella relazione e nella società nel suo insieme. Si può rivelare di grande efficacia nel mostrare desideri e paure riguardo all’essere visti, le dinamiche della solitudine e i processi potenti ancorché nascosti che ci portano a costruire la nostra immagine. Gregory Kramer
Pratica del giorno: La classe del mattino
© Nicoletta Cinotti 2019 Il protocollo di Mindfulness interpersonale