Ci sono poche cose davvero pericolose nel mondo degli affetti: una di queste è il senso di esclusione.
Quando veniamo esclusi si riattiva l’ancestrale sistema d’allarme che faceva temere l’esclusione dalla tribù perché significava la morte. Essere esclusi è una specie di morte sociale. Una morte vissuta essendo vivi.
Questo dolore si nutre sia attraverso l’essere esclusi che l’escludere: ogni volta che escludiamo qualcuno dalla nostra vita nutriamo quella riserva ancestrale di dolore e pericolo.
Ecco perché nella pratica di metta – una delle pratiche della tradizione vipassana – le benedizioni vengono rivolte progressivamente a tutti. Si attraversano tutti i cerchi dell’intimità: noi stessi, le persone che amiamo, le persone con cui abbiamo una conoscenza superficiale, le persone con le quali abbiamo una relazione difficile e, infine, tutti gli esseri. Per essere sicuri che nessuno venga escluso, a partire da noi stessi.
Molto spesso, il modo più profondo e nascosto che abbiamo per nutrire l’esclusione è proprio quello che proviamo quando consideriamo parti di noi non accettabili. È il primo cerchio – quello più intimo – che nutre il dolore più profondo e le bugie che raccontiamo agli altri nascono da questa, nascosta, separazione da sé.
Grazie alla nostra saggezza, smettiamo gradualmente di rinforzare le nostre abitudini, che non fanno che aggiungere dolore al mondo. Pema Chodron
Pratica di mindfulness: La meditazione del lago
© Nicoletta Cinotti 2015
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