Non so se anche voi avete avuto delle ansie rispetto alla vostra intelligenza: io sì. Ansie che mi hanno accompagnato dall’infanzia. Credo che si potrebbero definire una sorta di insicurezza. “Non so se sono intelligente e quindi mi metto continuamente alla prova per verificarlo“. E quando dico mettersi alla prova era letterale. Cercavo di capire tutto. Cercavo anche, appena mi è stato possibile, dei test d’intelligenza.
In realtà nella mia famiglia la divisione era che mia sorella era bella e io intelligente. Mentre per mia sorella mi sembrava che l’appellativo fosse indubitabile – era bella – il mio sembrava molto più soggetto a rischi e pericoli. C’erano un sacco di cose che non capivo. E poi la bellezza la vedi subito. L’intelligenza la vedi al momento del bisogno e sempre dopo una prova. Inutile dire che io avrei preferito essere quella bella e, forse, mia sorella essere quella intelligente. In ogni caso se questo era un tentativo dei miei genitori di non farci entrare in competizione, dandoci due diverse sfere di competenza, non funzionava. Non ha funzionato mai e ci ha reso litigiose l’una con l’altra. Ho scoperto presto che le qualità si associano, spesso, alla competizione e non rendono affatto la vita più facile. Anche se a me sembrava bellissima – e forse io sembravo intelligentissima a lei – questo non ci ha mai impedito di accapigliarci. Mio fratello, arrivato a distanza di parecchi anni, era maschio e questo lo metteva in un posto senza concorrenza. E francamente mi pare che questa storia sia vera anche al di fuori della mia famiglia (ma questo è un altro discorso).
La storia della competizione e i due tipi di danni
Nella nostra cultura avere una qualità – che sia talento artistico, intelligenza, bellezza o altro ancora – significa automaticamente entrare in una competizione. Sembra che avere una qualità ti metta immediatamente un numero sulla pettorina. E messo il numero devi iniziare a correre, anche se non sei allenato. Questo non aiuta affatto. Le qualità sono delicate e vulnerabili: tutte. Per crescere hanno bisogno di essere curate e metterle troppo presto in competizione rischia di bruciarle in senso letterale. Lo vedo con le piante: i primi tempi sono i più delicati. Poi quando iniziano ad avere un certo rigoglio puoi anche curartene meno. Noi invece mettiamo in competizione i bambini appena ci accorgiamo che hanno una qualità e questo credo che, moltissime volte, faccia grandi danni. Due tipi diversi di danni.
Il primo tipo è quello di alimentare una visione solitaria della genialità: se sei in competizione per una caratteristica individuale è piuttosto facile che tu abbia un po’ di vuoto intorno. Sia perché ti trovano competitivo – quelli che non possono competere con te – sia perché sei competitivo con quelli che possono, invece, essere degli interlocutori. In qualche modo metti una sorta di ipoteca sulle relazioni sociali. L’altro danno però è più profondo e, talvolta, devastante. Ed è il dubbio sulle tue reali capacità. Non conosco una sola persona che non abbia un senso di fallimento interiore. Perché mettendoci continuamente alla prova, cresciamo con la grande paura del fallimento. Non è detto che avvenga ma lo temiamo. Un senso di fallimento difficilmente comprensibile perché spesso sconnesso dai reali risultati e che toglie il piacere della realizzazione. Competere mette addosso la sensazione che quello che fai non sia abbastanza, non sia mai abbastanza e, per una persona che davvero riesce a vincere tutto e di più, ce ne sono moltissime, dotate, che sono rese infelici proprio dalla loro stessa unica qualità. Nella competizione c’è una profonda non accettazione: vince solo una persona. Le altre no e passano il resto della loro vita a cercare di capire come possono vincere. Ma questo ve lo racconto più avanti.
Partiamo da un paradosso
Così partiamo da un paradosso: le nostre capacità sono anche la radice del nostro senso di insicurezza. Un po’ accade perché la nostra mente funziona in modo binario – avere una cosa si accompagna al timore di perderla – un po’ perché siamo poco protetti nello sviluppo delle nostre capacità e messi troppo presto in competizione. È qui che incominciamo a metterci in lotta con noi stessi, incominciamo a nutrire quel conflitto tra esprimersi e giudicarsi dall’esterno. Il conflitto tra spontaneità/autenticità e controllo/perfezione. Iniziamo a questo punto la nostra grande carriera di perfezionatori.
Abbiamo un’abilità? Bene, adesso iniziamo a perfezionarla. Sembra un’ottima idea e, in parte lo è, basta che sia chiara la distinzione tra coltivarla e perfezionarla. Coltivarla significa comprendere la direzione di crescita, la direzione espressiva e darle sostegno, nutrimento. Proteggerla da una esposizione prematura e, anche, da un ritiro eccessivo. Perfezionarla significa avere in mente un target, un risultato, un obiettivo esterno e muoversi per conformarsi a quel target. È qui che la consapevolezza gioca un ruolo determinante.
Abbiamo bisogno di un po’ di consapevolezza
Abbiamo bisogno di un po’ di consapevolezza per distinguere tra perfezionismo e coltivazione. Se non sappiamo guardarci dentro e riconoscere le nostre personali motivazioni è molto facile fare confusione. E riconoscere le nostre motivazioni non è rimuginare su delle idee, che sono molto influenzabili. È sentire, nel corpo, la direzione delle nostre azioni.
Faccio una digressione piccola ma indispensabile. I pensieri conoscono bene l’ambivalenza: vorremmo mangiare e, anche, dimagrire. Vorremmo andare a destra e anche a sinistra.Siamo pieni di dubbi sul fatto se sia meglio fare una cosa o l’altra.Tanto che, a volte, finiamo per rimanere immobili. Nel corpo, nei gesti, c’è una direzione di movimento. Non è detto che dobbiamo seguirla ma questa direzione di movimento c’è. E, se sentiamo il corpo, se sappiamo ascoltarlo, possiamo riconoscerla. E scegliere.
Se siamo molto abituati a perfezionarci però abbiamo perso il contatto con la direzione spontanea del movimento e abbiamo solo movimenti controllati. Questi movimenti controllati si esprimono attraverso tensioni, contrazioni o dissociazioni dalla percezione corporea. Riconoscerlo è il primo passo per riprendere contatto con la nostra direzione spontanea di movimento. E ascoltarla. Torno a ripetere: non è un obbligo seguirla. Questo significherebbe essere spontaneisti. Però sapere cosa ci dice e in quale direzione ci invita ad andare è fondamentale per conoscere le nostre vere motivazioni. Fare qualcosa contro la nostra vera motivazione è come svuotare il mare con un secchiello: non funziona.
L’effetto positivo dell’impegno
Visto che ero così insicura sulla mia intelligenza ho iniziato a studiare molto. Il che mi sembrava una cosa utile ma mi lasciava aperta una domanda: “Sono intelligente o semplicemente studio più degli altri?'”. Lo so che può sembrare una domanda stupida ma i bambini hanno, dentro di sé, molte domande di questo genere. Sembrano stupide ma non lo sono affatto. In realtà, senza saperlo, avevo capito una cosa. Qualsiasi capacità, perché fiorisca, va allenata. Non c’è genio che tenga. Se non allena la sua capacità non basta avere genio. La visione romantica per cui il genio non ha bisogno di studiare perché le cose gli vengono senza impegno, ha fatto più danni di quanto possiamo pensare. Una sorta di epidemia che è molto diffusa nella scuola italiana, proprio adesso. Ci siamo preoccupati di dare molti stimoli per far crescere l’intelligenza dei nostri figli ma, se non li aiutiamo a disciplinare, con la pratica e lo studio, la loro intelligenza, rischiano di essere persone molto dotate ma incapaci di impegnarsi. Di avere quel retto sforzo che non è perfezionamento ma coltivazione.
E qui c’è – finalmente – una buona notizia. Sulla lunga distanza la costanza nell’impegno ottiene più risultati del genio. E, soprattutto, possiamo aiutare i nostri figli a sviluppare il loro potenziale senza coltivare il loro narcisismo, con l’autoregolazione.
Così ho capito che, forse, l’insicurezza mi aveva dato anche un vantaggio: la voglia di impegnarmi.
Come nasce l’accettazione
Alla fine mi è sembrato che, rendermi conto di quello che succedeva dentro di me, guardarlo anche un po’ divertita, era il modo migliore per iniziare ad accettarlo. E lo sguardo divertito mi ha salvato la vita. Perché cogliere il lato comico di quello che succede permette di trasformare la vergogna o l’imbarazzo per la propria vulnerabilità in apertura e condivisione. Nella vergogna ci nascondiamo dagli altri. Nella comicità ci apriamo agli altri. Lo sguardo passa da giudicante ad accettante. E, accettando, iniziamo a coltivare un senso di soddisfazione per l’esperienza anziché un senso di giudizio per il risultato.
Incominciamo a capire che i risultati non ci definiscono. Che il nostro diritto alla felicità non sta nella bontà dei nostri risultati ma in quanto riusciamo a gustarci quello che accade, quanto riusciamo a starci dentro, includendo anche la parte di noi che, incessantemente, giudica. Lo fa per proteggerci, alla fine anche lei fa il suo lavoro. E, insieme, siamo un bel gruppo.
Passare ad una visione condominiale
Una delle cose che più influenza la nostra capacità di auto-accettazione è avere una visione unitaria della nostra personalità. Tornando all’esempio iniziale o siamo belli o siamo intelligenti: belli e intelligenti no. L’idea che non possano esserci contraddizioni, aspetti divergenti, sfaccettature multiple, ci porta a nutrire parti assassine che cercano di eliminare le nostre incongruenze. Il punto invece è includere. Come se fossimo un condominio, con molti e diversificati vicini, e il nostro Io fosse un saggio amministratore di condominio (o il portinaio, non ho ancora deciso cosa sia meglio). Cercare di eliminare aspetti della nostra personalità è orribile. Possiamo evitare di nutrire il nostro tabagista interiore ma eliminarlo vorrebbe dire alimentare aspetti compulsivi e fuori controllo e ritrovarci con una disperata voglia di fumare appena la nostra parte rigorosa ha un cedimento.
Il punto è sentire la frizione. Per fare la lama ad un coltello è necessario passarla sulla mola. È la frizione che la rende affilata. Anche per noi è così. Non serve scappare dalla frizione: è la frizione che ci rende affilati. Quando sentiamo quella frizione che farebbe entrare in azione la squadra delle assassine – o assassini – è una buona idea fermarsi, fare una pausa ed esplorare. C’è qualcosa di interessante da accettare. Una sfaccettatura che arricchisce la nostra bellezza e luminosità. Un vero peccato cercare di rendere piatta la nostra luce!
L’arte della pausa
La pausa è un’arte perché, impulsivamente siamo organizzati per scappare. Per fuggire da quello che ci sembra pericoloso. Qui, invece, ci fermiamo per capire che cosa succede. Ecco perché è un arte – forse minore ma sempre arte – perché mette creatività ed espressione nella nostra vita. La vita non affila mai tutti nello stesso modo. Ognuno di noi incontra sfide diverse, frizioni diverse. Se non scappiamo quelle sfide diventano ciò che dà forma alla nostra vita, anziché incidenti di percorso – più o meno semplici – da risolvere.
Fare pausa non vuol dire fermarsi: vuol dire esplorare, lasciare che l’esperienza riveli se stessa. È in quel momento, quando mettiamo da parte la nostra idea di come dovrebbe essere la nostra vita che iniziamo ad amarla pienamente, così com’è. È in quel momento, quando scegliamo di non perfezionarla, che iniziamo davvero a muoverci verso un’accettazione radicale.
Il successo dell’accettazione
Così, alla fine, se proprio vogliamo parlare in termini di successo, non sarà la nostra competitività che ci permetterà di ottenere dei risultati. Sarà smettere di resistere a come siamo, sarà non far lavorare troppo le nostre parti assassine, sarà fidarsi che la frizione è quello che dà forma alla nostra vita, quello che ci permette di realizzare noi stessi, che ci darà quell’appagamento che cerchiamo con la vittoria. Non ha importanza se non siamo i primi assoluti, i meglio classificati in qualche fantomatica corsa inventata solo dalla nostra fantasia. Se siamo in grado di esistere, dando voce a chi siamo, con tutte le nostre sfaccettature, avremo vjnto tutto quello che c’era da vincere. Perché anche i grandi campioni, quando vincono, non lo fanno perché sono compatititivi ma perché sono nel fluire come racconta Bob Beamon
Bob Beamon non riuscì più ad eguagliare il suo record – che rimase imbattuto per 45 anni. Eppure l’aveva fatto. Non perché in quel momento era in competizione ma perché era una persona in affanno che lasciò andare. Al di là del controllo si permise di essere chi era. Non ci riuscì più. Forse perché, dopo, entrò in competizione con se stesso e fece fatica a darsi una disciplina.
Venendo a noi
La storia di Bob Beamon è una incredibile storia umana prima che sportiva ma, venendo a noi, possiamo dire che non ha importanza quanto abbiamo tradito l’accettazione nei nostri confronti. Né quante capacità abbiamo. Potremmo accorgerci che stare sul cuscino da meditazione e incontrare noi stessi è un vero tormento. Perché ci mette di fronte ai nostri punti di frizione. A quello che, nella nostra vita, stride con l’idea che ci eravamo fatti di come sarebbero andate le cose. Anzi, potremmo scoprire che è un tormento anche se non ci mettiamo seduti sul cuscino. Perché la nostra voce autocritica è sempre accesa. Eppure, alla fine, non è importante da dove partiamo: è importante quante volte ci ricordiamo che accettarci – e accettare – è possibile. Che possiamo farlo. Proprio qui. Proprio ora
© Nicoletta Cinotti 2017
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