Quando medito non metto mai un timer: in genere mi lascio un tempo ampio e, invece che mettere un indicatore della fine del tempo, esploro come mai sorge la voglia di fermarmi. Direi che il punto in cui sorge la voglia di interrompere la meditazione è il miglior termometro della “febbre emotiva” che conosco. Più sono inquieta, prima sorge il desiderio di aprire gli occhi e mettermi in azione. Se sono calma gusto il piacere del “tornare a casa” fino all’ultima goccia. Poi ci pensa la realtà a riportarmi a occhi aperti: la mia famiglia si alza, le macchine aumentano, il campanile suona e così via.
Ma so che quando voglio scappare presto dalla meditazione è perché c’è qualcosa che mi inquieta. Non è sempre un errore fare così: a volte bisogna toccare le emozioni difficili con leggerezza, in modo da non farsene sopraffare. L’errore sarebbe far finta di niente: andare incontro alla difficoltà e scegliere il momento in cui smettere l’esplorazione non è mai un errore. Non è un errore perché ci siamo dati il tempo di conoscere.
Il problema è il mito del rilassamento. Siamo una cultura che ha il mito che essere rilassati sia uno stato migliore di un altro e vada perseguito ad ogni costo, senza cogliere il paradosso che non è possibile forzare il rilassamento che, per essere tale, dovrebbe avvenire spontaneamente. Possiamo fare qualcosa per calmarci: perdonarci. Perché, alla fine, quello che continua a tenerci agitati non sono solo i problemi esterni ma la mancanza di fiducia nella nostra capacità di affrontarli e il rimprovero per gli errori e i fallimenti che possiamo aver aggiunto al carico quotidiano di difficoltà. Se togliamo la rabbia contro di noi – e la paura di non essere all’altezza – abbiamo tolto una bella fetta dei nostri problemi. Solo che non percepiamo la rabbia contro di noi come un sentimento inadeguato ma come una sorta di educazione. Una mala-educazione che da una parte ha il mito del rilassamento e dall’altra coltiva la politica dello sforzo e della punizione, senza coglierne la contraddizione. Il risultato è sempre uno dei 5 “sensi”: senso di colpa o senso di inadeguatezza, senso di impotenza, senso di nausea o senso di fame.
Spesso non abbiamo bisogno di rilassarci ma solo di perdonarci. Allora, quando ci perdoniamo, arriva un rilassamento colmo di tenerezza, il rilassamento di chi sa di aver fatto l’unica cosa che c’era da fare: uscire dalla trance dell’inadeguatezza.
Così è l’amore: accade come un dono del cielo e poi il testimone passa a noi, chiedendoci il coraggio e la fatica di lasciarlo accadere, senza paura della nostra inadeguatezza. Alessandro D’Avenia
Pratica di mindfulness: La pratica di gentilezza amorevole della mattina
© Nicoletta Cinotti 2021