Sono cresciuta in una grande casa di tre piani. Una scala centrale che dal grande ingresso conduceva ai piani superiori e alla soffitta. Noi, di fatto, abitavamo a piano terra e tutta la vita familiare si svolgeva lì. Ma io avevo paura della scala. Perché era buia e al piano di sopra c’erano stanze che usavamo poco. E una interessante e spaventosa soffitta. Alla fine, come molti bambini, quello che mi faceva paura era anche quello che mi attirava. E così dopo giorni di attesa mi facevo coraggio ed esploravo la soffitta. Alla fine quello che mi faceva paura era il buio. Che durava il tempo tra l’entrare nella stanza e accendere la luce. Molto poco quindi ma per me tantissimo.

Perché abbiamo paura del buio?

Perché abbiamo paura del buio? Perché sappiamo che c’è qualcosa che non vediamo e questo rende possibile qualsiasi fantasia. Non è diverso da quando ci sentiamo inquieti. Sappiamo che c’è qualcosa che non va ma non sappiamo dare nome a quell’emozione e questo ci rende agitati. Agitati almeno fino a che non accendiamo la luce, ossia fino a che non  comprendiamo quello che c’è.

Ovviamente la mia paura del buio suscitava abbastanza irritazione: sembrava a tutti che dovevo essere abbastanza grande e intelligente per averla risolta. Non è un atteggiamento insolito. Soffriamo tutti di una sorta di fobia per l’espressione emotiva. Dopo un certo numero di ripetizioni delle stesse espressioni emotive iniziamo ad avere ansia e rabbia. Perché? Beh, la mia spiegazione è di parte ma credo che sia perché abbiamo paura del buio. Il fatto che qualcuno rimanga “incastrato” in una emozione ci sembra la prova che è ancora nel buio, cioè che non ha capito che cosa gli sta succedendo.

La fobia per le emozioni

Abbiamo  una lunga e consolidata tendenza a evitare le emozioni dolorose. Pochi di noi aprono la porta, accendono pienamente la luce, verso le emozioni dolorose sperimentandole consapevolmente, nel corpo. Siamo abituati ad agire impulsivamente proprio per interromperne la consapevolezza: il problema però non sono le emozioni ma la nostra difficoltà ad affrontarle mindfully. A volte finiamo per diventare ansiosi, depressi o torpidi proprio perché non riusciamo a farci onestamente i conti.

Queste emozioni buie – che erano come le stanze buie della mia infanzia – sono la nostra straordinaria opportunità di apprendimento. Ognuna di queste emozioni – ho imparato con il tempo – ha il proprio valore e il proprio significato. Proprio come le stanze del piano di sopra. C’era la camera da letto dello zio che abitava in Svizzera, la camera degli ospiti, il bagno e quella che sarebbe dovuta essere la mia camera. Ma io finivo a letto con mia nonna, nella stanza a piano terra. Mi infilavo sotto le coperte promettendo ogni sera che sarebbe stata l’ultima. Rimandavo di andare al piano di sopra per via del buio. Proprio come, da adulti, rimandiamo di guardare quello che ci fa paura.

Non ci sono emozioni negative

Ho imparato con il tempo che non ci sono emozioni negative ma solo emozioni verso le quali avevo un atteggiamento negativo. Era il mio atteggiamento di evitamento – la mia paura ad accendere la luce – che le rendeva spaventose e le conseguenze negative che spesso erano associate nascevano dal mio tentativo di negarle. Erano solo emozioni che richiedevano attenzione, che reclamavano espressione, aspettavano di darmi informazioni e direzioni di movimento. Avevo solo bisogno di ascoltarle.

Se non riusciamo ad ascoltarle si trasformano in ansia e poi in rabbia o in disturbi psicosomatici. Portano oscurità nella nostra vita. Proprio così: quando stiamo male è come se nelle nostre giornate ci fosse meno luce. Come se quel buio che evitiamo, per non  incontrare le emozioni cosiddette negative, penetrasse nella nostra vita come un velo.

Perdere l’apprendimento

Alla fine quello che perdiamo, non incontrando ciò che temiamo, è la possibilità di imparare. Ovattiamo le emozioni e così nutriamo la nostra sorgente nascosta di vendetta, violenza e distruttività. Non abbiamo bisogno di mandarle via: abbiamo bisogno di ascoltarle. Passiamo dalla disperazione alla gioia, dal lutto alla gratitudine, dalla paura alla sicurezza continuamente. Non possiamo pensare che solo la metà di questo viaggio sia importante.

Abbiamo solo bisogno di tre qualità per incontrarle: presenza, accoglienza e accettazione. La presenza è per non incontrarle come se fossimo degli spettatori, per non rimanere ad una leggera distanza da noi stessi e dalla nostra vita. Per sperimentarle nella loro pienezza corporea. Accoglierle è per assaggiare la fluidità delle sfumature emotive, ed è ancora un processo corporeo perché ogni emozione ha una radice corporea. Accettarle è qualcosa di più che lasciarle andare: è lasciar essere.. Lasciar andare e lasciar essere ci rimettono nel fluire della nostra vita, nel non avere piani ma, piuttosto, una direzione di crescita.

Quando cambiarono le lampadine

Ad un certo punto, in Italia, venne cambiata la potenza dell’elettricità erogata. Questo rendeva necessario cambiare tutte le lampadine. I miei genitori erano dei gran risparmiatori e pensarono che non fosse proprio necessario cambiarle tutte. Alla fine, una sera, andando al piano di sopra, accesi la luce e scoppiarono tutte insieme. ˙Fu una specie di fuoco d’artificio fuori programma: fu lì che scesi le scale alla “velocità della luce”! E fu lì che capii due cose fondamentali: la paura mi aveva reso molto più veloce e non sempre la luce va bene. A volte bisogna regolarne l’intensità. Tradotto in termini emotivi direi che potrebbe essere così.

A volte entriamo nelle nostre emozioni oscure con l’intenzione di sguazzarci dentro, di rimanere nel pantano emotivo senza uscirne per farci consolare. Non è una grande idea. Abbiamo bisogno di avere la chiara intenzione di imparare prima di metterci all’opera, Prima di decidere di fare luce dentro il nostro buio.

Il secondo aspetto è non pretendere di farlo con la mente. Non possiamo comprendere senza prima avere sentito. Se percorriamo la strada della mente senza sensazioni entriamo in un mondo di proliferazione mentale. Il corpo non è solo il nostro ormeggio alla realtà: è anche l’attivatore di un reale processo di apprendimento. Le emozioni vanno conosciute e sperimentate nel corpo prima che attivino una riflessione nella mente.

L’azione e la non azione

Anche se può sembrare strano molta della nostra impulsività ha lo scopo di ridurre le sensazioni. È necessario sostare in quello che sentiamo prima di passare all’azione. Di stare in una tolleranza dell’esperienza prima di esprimersi. È da questa recettività che può sorgere la nostra direzione di crescita, da questa quiete che nasce il vero movimento. E quella ricettività, benché immobile, è una grandissima azione.

Quando ascoltiamo la nostra paura del buio, quando incontriamo il nostro dolore o la nostra inquietudine scopriamo che non siamo soli. Che le nostre esperienze appartengono a noi eppure sono condivise, che sono parte inevitabile della nostra crescita. Che sono, come dice Rumi ne “La locanda” messaggeri che sono stati mandati da lontano. Rimandarli indietro sarebbe perdere una grande occasione: quella del presente.

Un buon viaggiatore non ha piani precisi e il suo scopo non è arrivare.Lao Tzu

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