Il fatto che stiamo vivendo un’epoca incerta è una specie di mantra che ricorre continuamente. Non abbiamo molti strumenti per saper stare nell’incertezza e il rischio è che l’incertezza diventi una sorta di autorizzazione all’abbandono, alla trascuratezza. Che alimenti una modalità “mordi e fuggi” senza progettualità.

Tutto si muove da dentro” è il libro di Fulvio Di Sigismondo. Ne ho scritto la prefazione, affronta questi temi con l’attenzione ai ragazzi che sono nell’età della seconda giovinezza, quando vorresti entrare nel mercato del lavoro ma – forse – di lavoro non c’è traccia.

Il libro ci ricorda che la società e gli educatori hanno la funzione di organizzare la speranza in questi tempi incerti. Di farla crescere e coltivarla. Il rischio infatti è proprio che l’incertezza la faccia perdere e alimenti la fuga nei modi in cui si realizza oggi la partenza.

Neet

Chi ha fiducia si costruisce un futuro altrove, magari in altri paesi europei. Chi questa fiducia non ce l’ha rischia di diventare NEET (Not in Education, Employment or Training) giovani non occupati e che non sono in processi di formazione. Nel 2013, in Italia, oltre 2.435 migliaia di giovani (il 26,0 per cento della popolazione tra i 15 e i 29 anni) risultano fuori dal circuito formativo e lavorativo. L’incidenza dei Neet è più elevata tra le donne (27,7 per cento) rispetto agli uomini (24,4 per cento). In parte è una responsabilità della nostra generazione: non abbiamo saputo costruire posti di lavoro e quindi abbiamo tolto ai giovani, una parte della possibilità di essere mentalmente sani: la possibilità di lavorare. 

“L’amore, il lavoro e la conoscenza sono la fonte della nostra vita. Dovrebbero anche governarla.”Wilhelm Reich

Non tutti vogliono partire

Se per molti la speranza sembra essere partire, cercare opportunità professionali altrove, opportunità non facili per chi non ha un buon percorso formativo alle spalle, per altri il punto sembra voler tornare. Tornate è la lettera di Arikita, giovane economista – e poetessa – milanese che dopo un periodo in Francia ha scelto di tornare. Ascoltiamo le sue parole.

“E’ un dispiacere vischioso, rimane incollato in faccia, e se provo a lavarlo via, mi imbratto le mani. Pure le mani. Amici. Del passato, più che del presente: diciamolo. E ancor meno del futuro, ché non abbiamo nessun progetto (nessuno?) in comune — ed è qui che il dispiacere diventa un boccone piccante, troppo; brucia e fa lacrimare gli occhi.

Mi raccontate cose bellissime, fate e siete bravi, e mentre raccontate invidio quei Paesi in cui vivete, gli abitanti del vostro quartiere, i colleghi e soprattutto gli amici, che possono bere una birra con voi in una sera qualsiasi, o passare a citofonarvi. Raccontate di come si sta bene, dei servizi che da noi, in Italia, neanche a sognarli, delle buone abitudini che lì tutti, qui nessuno.

Cerco disperatamente una nota di nostalgia, attendo con ansia quel “Tutto bene però…”. E invece niente. C’è davvero così poco che vi manca dell’Italia, di noi, che siamo rimasti? Non vi fa soffrire che ci stiamo provando sempre in meno, sempre più stanchi e soli, a fare qualcosa di bello, qui dove è più difficile? Tornate. Ci divideremo quello che resta, inventeremo modi nuovi per stare insieme, stare bene, abbiamo bisogno di voi. E se proprio non volete, non potete, fate qualcosa per chi da qui resiste, nonostante la corruzione, le disuguaglianze: anzi, più che “nonostante”, “contro” e anche “per”. Perché dell’altro esista.

Se è vero che siete diventati più ricchi, più felici, più riposati… allora mandate un po’ di queste cose anche qui. Le migrazioni possono produrre effetti positivi, ma devono produrli anche nei Paesi da cui i migranti partono, che rimangono orfani dei figli che hanno allevato, curato, formato. Ci mancate. Arikita

Trasformare l’incertezza in una nuova alleanza

Quando Arikita dice “tornate” chiama i suoi coetanei. Io userei la stessa parola per richiamare gli Adulti. Tornate a fare i genitori e non i coetanei, confusi e disorientati, dei vostri figli. Tornate ad invecchiare, è fisiologico e naturale, tornate a riflettere e a crescere in saggezza e non solo in impulsività. Tornate a fare i genitori, magari in modo completamente diverso da quello dei vostri genitori. E, soprattutto, rimanete genitori anche dei vostri figli adolescenti e giovani. Perché quello che osserviamo oggi è un grande impegno dei genitori nei confronti dei propri bambini e poi, come se la genitorialità avesse una scadenza, una grande difficoltà a trovare un modo di continuare a fare il genitore anche di un figlio adolescente. Ci sovrasta con la sua energia, ci stupisce con la sua maturità, e ci sembra che l’unico modo di fare il genitore sia garantirgli una sicurezza economica. Un accesso facilitato a beni di consumo. Facciamo fatica ad essere genitori dei figli adolescenti perché siamo poco in casa e loro non si sa mai quando tornano. Facciamo fatica perché non sappiamo aspettare, forse non sappiamo noi stessi la direzione in cui vorremmo andare. È perché facciamo fatica che abbiamo bisogno, dice Fulvio, di costruire una nuova alleanza

Oggi forse non abbiamo più la possibilità di dire ai giovani cosa fare per risolvere i loro problemi, di garantire loro certezze e soluzioni, possiamo però affiancarli per aiutarli a comprendere chi sono e esprimere cosa pensano, per rafforzare i processi di costruzione di identità. Ciò che resta dell’educazione è l’eredità che possiamo trasmettere perché, a nostra volta, l’abbiamo ricevuta come testimone essenziale da generazioni precedenti. E’ la ricerca costante di restituzione di parola e di riflessività, perché ciascuno possa apprendere dall’esperienza, imparando e, al tempo stesso, assumendo attivamente e criticamente ciò che impara, fino a esserne protagonista cosciente. Fulvio Di Sigismondo

La seconda giovinezza e l’attraversamento della linea d’ombra

La seconda giovinezza è quella fase della vita, dai venti ai trent’anni e oltre, in cui non si è più adolescenti ma si attraversa una transizione – importante – tra la gioventù e la vita adulta.

Joseph  Conrad nel suo libro ” La linea d’ombra”,la descrive così:

Solo i giovani hanno di questi momenti. Non parlo dei giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. E’ privilegio della prima gioventù di vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta una bella continuità di speranze…Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, accogliendo il bene e il male insieme – le rose e le spine, come si dice – la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi le merita o, forse, a chi ha fortuna. Sì. Uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù.”Joseph  Conrad

Ad un certo punto nella vita sentiamo il bisogno di andare oltre, di metterci alla prova. Cerchiamo di farlo in tantissimi modi diversi. Non c’è un nome per questa fase, che pure segna, in maniera significativa, l’ingresso nel periodo centrale della propria vita.

Questo ingresso nella seconda giovinezza è un ingresso scivoloso, difficilmente segnato da un momento preciso, eppure muove profondamente ciascuno di noi e, simbolicamente, rappresenta quel cambiamento che facciamo, sempre, quando cresciamo. Non siamo più come prima. Non siamo ancora chi saremo davvero. E ci troviamo in una zona – d’ombra perché spesso è oscura e dolorosa – che dobbiamo attraversare se vogliamo vedere di nuovo la luce. Certo possiamo tornare indietro, e molte volte lo facciamo. Ma più volte torniamo indietro e più sentiamo di perdere valore, e di essere sconfitti dalla vita.Spesso il momento che precede l’attraversamento della linea d’ombra è accompagnato da una sensazione di crollo. Quello che sapevi prima non è più sufficiente. Le tue convinzioni su di te si ridimensionano. Scopri che diventare grande è difficile e nello scoprire questa difficoltà ti senti piccolissimo e vulnerabile.Questa sensazione di svuotamento può arrivare quando ti rendi conto che l’impatto con la vita vera è qualcosa di diverso. Spesso è proprio una sensazione fisica di collasso e di vuoto.

Un rito di passaggio

In questa transizione abbiamo bisogno di un rito di passaggio e Fulvio, nel suo libro, ne offre uno: la narrazione e l’ascolto. Un rito di passaggio è una pratica che segna il cambiamento di un individuo da uno status socio-culturale ad un altro, cambiamenti che riguardano il ciclo della vita individuale. Spesso nelle società tribali viene affrontato attraverso un rito di iniziazione . Nella nostra cultura non abbiamo più veri e propri riti di iniziazione anche se, ovviamente, abbiamo anche noi molti momenti di transizione. Momenti in cui, per l’appunto, siamo chiamati ad attraversare la linea d’ombra.

I riti di passaggio permettono di legare l’individuo al gruppo, ma anche di strutturare la vita dell’individuo a tappe precise, che offrono una percezione tranquillizzante nel rapporto con la sua temporaneità e con la sua mortalità. Sappiamo, nel rito di passaggio, dove stiamo andando e tutta la nostra tribù ci accompagna e sostiene

A volte può essere necessario chiedere aiuto, per affrontare questa transizione. Spero che chi è nella prima o nella seconda giovinezza incontri persone come Fulvio: faranno un bel tratto di strada insieme

Il profondo lavoro della consapevolezza non è solo personale. Si svolge anche nella relazione, (…) la relazione è una forza potente per il risveglio e sostiene dinamicamente ognuno di noi nel processo della consapevolezza. La società diventa più armoniosa quando gli individui e i gruppi  lavorano insieme per la consapevolezza. Gregory Kramer

“Tutto si muove da dentro” di Fulvio Di Sigismondo, Prefazione di Nicoletta Cinotti. Oltre Edizioni

© Nicoletta Cinotti 2017

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