Vorremmo tutti essere coerenti. Dritti come fusi. O forse no, vorremmo essere incoerenti e che nessuno se ne accorga. In ogni caso niente è più scomodo che sentire due opposte emozioni o due opposte direzioni. Perché a volte la nostra ambivalenza è una ambivalenza del cuore e a volte è l’espressione di una dissociazione tra mente e cuore.

Quando proviamo sentimenti opposti diventiamo irrequieti. Iniziamo ad andare in una direzione e poi in quella opposta con l’unico risultato di rimanere fermi, alla fine, nel solito posto, scomodo e tagliente come uno scoglio ripido sul quale accomodarsi è difficile e l’unica via di fuga è tuffarsi.

Altre volte però l’ambivalenza è diversa: è un conflitto tra qualcosa che nasce nel cuore (o nella pancia) e qualcosa di diverso che dice la mente. Allora quando è così tuffarsi non basta. Non basta scegliere una delle due spinte. Rimane l’inquietudine e il tormento di non aver percorso l’altra strada. Perché quel tipo di ambivalenza è una infedeltà a sé stessi più lacerante: è sentire che ci sono dentro di noi forze contrapposte e che scegliere una lascia infelice l’altra. Alla fine, l’unica soluzione è accettare di perdere. Cercare soluzioni per non perdere è spesso peggiore del disagio che vorremmo evitare. Così mi torna in mente la storia di Manas, l’aspetto della mente che cerca di evitare il dolore e trovare il piacere. Nel fare questo non percepiamo il pericolo che sta nella ricerca del piacere e ignoriamo l’aspetto positivo che può essere connesso all’esperienza della sofferenza. Eppure è la sofferenza che coltiva in noi il seme della compassione. Così perdere è anche trovare. Trovare quella sfumatura che rende i bordi del cuore più accoglienti e comprensivi. Non più bordi che chiudono ma scenari che aprono. Perché se riconoscere la sofferenza coltiva il seme della compassione, riconoscere che possiamo sempre imparare qualcosa coltiva il seme della saggezza e ci insegna a non aggiungere sofferenza inutile al nostro dolore.

Ciascuno di noi ha bisogno di una dose di sofferenza per coltivare comprensione e compassione. Ma non dobbiamo crearne altra. Ne abbiamo già abbastanza in noi e attorno a noi. La coscienza mentale è in grado di imparare dall’osservazione della sofferenza per poi trasmettere questa conoscenza alla coscienza-deposito. Thich Nhat Hanh

Pratica di mindfulness: Be water

© Nicoletta Cinotti 2020 Reparenting ourselves

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