In questi giorni sono in ritiro: il post quotidiano è tratto dal libro “Mindfulness in 5 minuti. Pratiche informali di ordinaria felicità”
Quando il Dalai Lama ricevette il premio Nobel per la pace, un giornalista gli chiese se provava rancore nei confronti dei cinesi, che avevano esiliato e perseguitato i tibetani. Il Dalai Lama rispose: “Ci hanno preso tutto, dovrei permettere che mi prendano anche la mente?” Ecco, l’equanimità è questo: non permettere che ciò che toglie pace alla tua vita, invada la tua mente.
L’equanimità è la radice della gentilezza e della compassione: è uno stato di calma che sperimentiamo quando abbiamo acquietato l’avversione e lasciato andare l’attaccamento ad un risultato specifico. È lontana dall’indifferenza: non significa non provare nulla: significa, al contrario, riuscire a cogliere la radice della compassione e della gentilezza abbastanza da permetterci di aprire la mente anche alla prospettiva dell’altro, cercando di essere imparziali. Nella tradizione tibetana c’è una metafora associata all’equanimità. L’equanimità è come un campo ben arato. Perché l’acqua non ristagni in alcuni punti o manchi in altri, non dobbiamo occuparci solo della profondità dei solchi ma anche fare in modo che il nostro campo sia pari. Da questa immagine possiamo capire che l’equanimità ha un ostacolo: l’impazienza. Se scaviamo in profondità sotto il terreno dell’impazienza scopriamo che c’è una intolleranza per la realtà così com’è che conduce a dare velocemente la colpa di quello che succede a qualcosa o a qualcuno. Bisognerebbe, invece, affrettarsi piano. Affrettarsi perché la distanza dall’equanimità ci lascia nell’avversione, ma senza pretendere che tutto cambi in un attimo.
Pratica di mindfulness: La meditazione della montagna
© Nicoletta Cinotti 2020