Mi capita molto spesso di accorgermi della severità che si scatena, dentro ognuno di noi, connessa proprio al semplice fatto di imparare qualcosa. Siamo lì, di fronte ad una nuova esperienza, e dentro di noi scoppia il finimondo. Continui commenti sulla nostra attenzione, capacità, possibilità di imparare e di continuare a praticare. Disperati tentativi di dirsi “questo lo sapevo già”, oppure “questo non mi piace” emergono, estremi, per sottrarsi al rischio dell’apprendimento.
Per non parlare poi di quello che succede rispetto alla disciplina. Non la disciplina data dagli altri. La disciplina che chiediamo a noi stessi, per noi stessi. Una specie di rincorsa, un gioco ad ostacoli tra desiderio e opposizione.
Davvero il finimondo.
Deve essere stato proprio difficile imparare. Dobbiamo essere stati davvero maltrattati perché la gioia di questo processo ci faccia, a distanza di tanto tempo, così ansia e paura. Perché imparare sia diventato un braccio di ferro con sé stessi, anziché quel gioco che dovrebbe essere. C’è un grande fraintendimento: il punto non è essere perfetti. Il punto è imparare, attraverso gli inevitabili errori. E trasformare ogni errore in un apprendimento. La qualità della pratica non è data dal fatto che la mente non vaga. È data dalla gentilezza che abbiamo nei confronti del tornare al respiro. È la gentilezza che conta nell’imparare.
Il punto non è la regolarità nella vita; il punto è l’esperienza. Chogyam Trungpa
Pratica di mindfulness: L’arte di perdere
© Nicoletta Cinotti 2022