Se c’è una cosa che può risultare difficile, almeno all’inizio, è l’invito che viene fatto nei protocolli mindfulness, a portare avanti la pratica a casa. Non è un invito insolito. Siamo cresciuti sentendoci dire che dobbiamo ripetere le cose per impararle, che dobbiamo allenarci per essere sportivi, che dobbiamo studiare per superare gli esami. Siamo abituati quindi a riconoscere che impegno e apprendimento vanno insieme. Sentirlo come un dovere, come un obbligo non aiuta per niente però. Anzi diventa una ragione per essere demotivati o che non siamo adatti alla pratica. Che appartiene quasi più agli altri – quelli bravi – che a noi stessi.
Come mai è difficile praticare?
Anche se può sembrare strano non è la noia l’ostacolo principale. È fare i conti con una realtà diversa da come ce l’aspettavamo. Ci risulta difficile accorgerci che le cose sono diverse dall’ideale.Che siamo più distratti, più irrequieti o più assonnati. Che pensavamo di essere più portati per la pratica e, invece, incontriamo insospettate difficoltà. Questo però è il primo regalo della pratica: ci fa scendere nella realtà. Ci costringe ad avere una visione chiara delle cose. E, soprattutto, ci dice che andiamo bene così come siamo. Per davvero! Niente da correggere e nessun giudizio o critica rivolta verso di noi, come saggiamente esprime Jon Kabat Zinn.
Vedere dei risultati
L’altro ostacolo può essere il desiderio di vedere subito risultati tangibili. La pratica però non è strumentale: è efficace. Non sappiamo come ci cambierà: sappiamo solo che ci cambierà. Così, il secondo invito della pratica – dopo quello, fondamentale, di accettare le cose così come sono – è quello ad aver fiducia. Quella fiducia che ci permette di non rincorrere risultati immediati ma di saper aspettare che le cose fioriscano con il loro ritmo. Il cambiamento della meditazione è simile alla crescita. Non possiamo spingerlo o forzarlo. Possiamo però coltivarlo. Anzi abbiamo bisogno di coltivarlo. Ogni momento di consapevolezza è un modo per seminare. Ogni successivo momento di consapevolezza è un modo per coltivare il seme che abbiamo piantato.
Smettere di essere performativi
Quando pensiamo alla pratica spesso abbiamo in mente l’idea di una forma di miglioramento. Che, sottilmente, dichiara che non andiamo bene. La pratica di cui parliamo però ci invita a lasciar perdere la logica del miglioramento della prestazione per fare riferimento in modo prevalente al criterio della presenza a se stessi. La presenza però è uno stato mutevole e condizionato da elementi interni ed elementi esterni. Tutto il nostro lavoro è immedesimarci con quella mutevolezza in piena lucidità. Scopriremo così che non c’è niente di più variabile della presenza. In alcuni momenti tutto apparirà vivido come un film in 3D. In altri momenti tutto sarà così intenso che perderemo il senso del tempo e ci ritroveremo a non saper dire se è trascorso un attimo o un’ora.
Inoltre ci accorgeremo, sempre di più, che la vera pratica non è quella che facciamo ad occhi chiusi sul cuscino ma quella che portiamo nella nostra vita di tutti i giorni. Trasformando così la nostra vita in una continua occasione di pratica.
Conoscere le trappole
Alla fine la pratica ci porta ad acquisire un senso di calma e stabilità. Non come condizione statica ma come condizione dinamica che può essere scossa dagli eventi interni ed esterni. Siamo come un punging ball. Gli eventi ci scuotono ma se la nostra base è solida, non verremo travolti, solo un po’ scossi. Questa è la calma che offre la pratica: nessuna magia, solo una base sicura che ci rende vitali e flessibili in un mondo in continuo movimento.
© Nicoletta Cinotti 2017
Eventi correlati
Ritiro di primavera: Risolversi a cominciare
Stepping Mindfulness Spring