Meditare vuol dire stare con tutto ciò che c’è in quel dato momento, con tutto ciò che si è in quel dato momento, né più né meno. Stare ed essere completamente nel qui e ora, senza aspettative. Non vuol dire cambiare lo stato delle cose (che sia un pensiero, un’emozione o un dolore fisico), né tantomeno reprimerle, ma riuscire ad accoglierle così come sono, dando attenzione intenzionale con un’atteggiamento da osservatore neutrale o testimone. A questo punto cosa resta? Resta la lingua della poesia che è una lingua evocativa. Evocativa perchè chiama, evoca sensazioni, ricordi, riflessioni.
Ciò che resta è la lingua della poesia. Una lingua che non dice nulla ma chiama. Il vocativo è quella parte della lingua che non dice nulla ma chiama, anzi interrompe il quotidiano, crea una rottura, è una parte della lingua che non cade nel discorso… Chiama ciò che si perde, ciò che si è perduto, e ciò che si perde è di dio“. Giorgio Agamben
La poesia chiama il ritorno all’origine. Guarda l’esperienza con questa chiamata ma non la definisce. Piuttosto la esprime perchè è una con l’esperienza stessa. Ed ecco quindi che poesia e meditazione si incontrano di nuovo. Sono parole che non regalano le certezza della prosa. Chiama ciò che stiamo cercando, con tutta la forza della nostra ricerca.